Qual è la funzione primaria di un farmaco?

Il farmaco serve per ridurre e, nella migliore delle ipotesi, far scomparire dei sintomi che creano disagio. Generalizzando, possiamo distinguere due macro categorie: esistono i sintomatici, che agiscono direttamente sul sintomo (per esempio gli antinfiammatori o gli antidolorifici) e i farmaci di profilassi, che hanno l’obiettivo di mettere l’organismo nelle condizioni di non esperire più il sintomo o di ridurne intensità e frequenza.

L’idea che una sostanza possa alleviare un disagio o un dolore è di per sé positiva, ma è importante mantenere uno spirito critico e riflessivo e osservare cosa sta accadendo in questo periodo storico, iniziato circa negli anni ’50.

È possibile notare infatti una maggiore tendenza, in aumento, alla prescrizione di ansiolitici e antidepressivi in particolare. Per ansiolitici si intendono farmaci come: Xanax, Lexotan, Tavor, En, Ansiolin, Rivotril, Aprazolam, Lorazepam, Diazepam. Mentre gli antidepressivi più prescritti sono: Prozac (fluoxetina), Celexa (citalopram), Zoloft (sertralina), Paxil (paroxetina), Lexapro (escitalopram).

Perché questo? Allan Horwitz e Jerome Wakefield ci rispondo in modo molto chiaro:

Gli attuali approcci di assistenza medica si basano su strategie che riducono le spese sanitarie prescrivendo i trattamenti più economici possibili. Così i medici di base hanno in parte sostituito gli psichiatri nella prescrizione di psicofarmaci (senza una formazione specifica adeguata, aggiungerei io). In questo modo tutti sono più felici: visite brevi (anche meno di dieci minuti) pastiglietta salvavita prescritta, “soluzione” rapida e basso costo per il paziente.

Il risultato, come notano i nostri Horwitz e Wakefield è che gli psicofarmaci sono sempre più prescritti dai medici di base e sempre meno dagli psichiatri, ovvero gli specialisti che hanno studiato per somministrare questa tipologia di farmaci, molto delicata.

Per i farmaci specifici di solito non funziona in questo modo, non li prescrivono i medici di base, ma gli specialisti. L’importantissimo compito del medico di base è quello di comprendere il disagio espresso dal paziente e indirizzarlo allo specialista che più probabilmente potrà aiutare a giungere ad una diagnosi precoce e curare la persona.

Facciamo un esempio pratico:  Arianna va dal proprio medico di famiglia, dott. Rossi, perché da qualche tempo ha forti cefalee sempre più ricorrenti; il compito del dott. Rossi è quello di indirizzarla ad una visita neurologica, ed evitare che la ragazza perda tempo prezioso facendo magari prima visite meno utili, ma certamente non le prescriverà farmaci come antiepilettici, betabloccanti o anticoagulanti senza ulteriori pareri specialistici.

Una domanda mi sorge spontanea: perché quando una persona arriva con problemi di ansia o altri disagi psichici il medico spesso si prende la libertà di prescrivere psicofarmaci senza prima un consulto specialistico?

Ci aiutano a rispondere a questa domanda sempre Horwitz e Wakefield quando parlano del trionfo delle grandi case farmaceutiche. Per dare solo un paio di dati negli anni ’80 i pazienti trattati farmacologicamente per depressione erano quattro volte e mezzo di più di quelli in terapia psicologica. Per dare dei numeri significa che mediamente su dieci persone a cui era stata diagnosticata la depressione meno di 2 erano in trattamento psicologico e più di 8 solo farmacologico.

Questo dato è allarmante anche senza considerare l’aumento dell’inflazione diagnostica, (cioè l’aumento delle diagnosi di disturbi mentali) sottolineato da Allen Frances, lo psichiatra che ha presieduto la task force che ha pubblicato il DSM-IV, dopo aver partecipato alla stesura del DSM-III-R.

Frances spiega come l’abbassamento delle soglie diagnostiche, nelle ultime versioni del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, rischia di portare alla patologizzazione di soggetti non clinici. Questo contribuisce molto all’aumento della prescrizione di farmaci che non solo non sono utili al paziente, ma sono decisamente dannosi a causa degli effetti collaterali, soprattutto quelli a lungo termine.

Se uniamo questi due aspetti, ovvero la tendenza a fare diagnosi incaute e la prescrizione precipitata di psicofarmaci da parte di medici, non specificatamente formati sulle patologie psichiche, la situazione è davvero preoccupante.

Quello che uno psicologo clinico può fare in proposito è cercare di sensibilizzare i propri pazienti, ma anche amici e parenti che sperimentano disagi psichici, a consultare specialisti della salute mentale prima di assumere in modo continuativo psicofarmaci che, agendo sul sistema nervoso centrale, possono influenzare in modo non indifferente emozioni e comportamento.

Inoltre una presa in carico corretta e attenta può ridurre maggiormente il disagio percepito e un percorso psicologico più approfondito può rappresentare la chiave di svolta del cambiamento.

Bibliografia

  • Horwitz, A. V., & Wakefield, J. C. (2014). The loss of sadness: How psychiatry transformed normal sorrow into depressive disorder. Oxford: Oxford University Press.
  • Frances, A. (2014). La diagnosi in psichiatria: Ripensare il DSM-5. Milano: Cortina.

Dott.ssa Elisa Brembilla

Psicologa, Mindfulness educator, Specializzanda in psicoterapia sistemico-relazionale.