In questo momento storico si è parlato molto di come gestire le emozioni derivanti dall’isolamento sociale, e dei possibili risvolti psicologici e psicopatologici della situazione che stiamo vivendo.

Si è parlato di resilienza, di forza ed ottimismo. Ma forse quello di cui abbiamo evitato di parlare e di guardare negli occhi è la sofferenza. Che più che un’emozione è uno stato del nostro essere.

E della sofferenza che ce ne facciamo?  

E’ questa la domanda a cui tenta di rispondere François Roustang, psicanalista laureato alla Sorbona, in un bellissimo articolo che vorrei ripercorrere qui oggi. L’autore parte interrogandosi su cosa accade quando siamo colti dalla sofferenza, condizione che proviamo in quanto esseri umani soggetti alla perdita, alla mancanza, al lutto.   La prima reazione è quella del rifiuto, un riflesso automatico e soprattutto legittimo. Ci voltiamo dall’altra parte, negando la realtà, negando l’evento che provoca il dolore, cercando di mantenere intatta una parte di noi. Ma questo rifiuto in un primo momento va rispettato e considerato nella sua utilità. E’ necessario. Poiché negare l’avvenimento che ci ha turbato, mobilitando tutte le nostre risorse per farlo, è in qualche maniera l’unico modo per prenderne atto, per disegnarne i confini. Così facendo gli forniamo una consistenza che lo rispetta. “L’evento ha certamente avuto luogo nella misura in cui determina oggi, nello sforzo di cancellarlo, i nostri pensieri e i nostri umori […] Il rifiuto diventa per ora, l’unico modo disponibile per riconoscere il fatto: è il sigillo della verità della nostra posizione in questo istante”. 

Questo vuol dire che non siamo pronti ad integrare questo avvenimento nella nostra storia. Se ci pensiamo questo è ciò che è accaduto a tutti noi di fronte ad un evento imprevisto come quello di una pandemia globale, che ci mette davanti all’impotenza, alla malattia, alla perdita e stravolge il mondo a cui eravamo abituati.

Se restiamo troppo a lungo nello stadio del rifiuto però, non faremo che andare incontro ad un deterioramento sempre più importante, arrovellandoci nel tentativo di trovare un responsabile esterno (rabbia) o uno interno (senso di colpa) per l’evento che ci ha stravolto la vita. A questo punto ciò che possiamo fare è cercare, invece, di modificare il rapporto con l’evento che ha scatenato la sofferenza. Si tratta di affrontare la condizione che si è generata a seguito di un avvenimento doloroso e “lasciarci trasformare dal contesto nuovo che non potevamo prevedere e che ci si impone”.

E come si fa?

“Tutto dipende, per ciascuno e per me, dalla decisione di ricominciare a vivere”.

Spesso però ricominciare a vivere, accettare l’inaccetabile, come ad esempio un lutto,  una perdita o un cambiamento può sembrarci quasi una mancanza di rispetto, un tradimento, verso chi non c’è più o verso chi sta male, può sembrarci rassegnazione.  Ma qui bisogna fare una distinzione fondamentale secondo Roustang. Dobbiamo distinguere tra l’oblio che cancella e l’oblio che preserva.

L’oblio che cancella non tollera che qualcosa sia accaduto, non ci ha insegnato niente, non ha cambiato niente. L’oblio che preserva invece fa si che la sofferenza non pervada più ogni aspetto della nostra esistenza. Ma soprattutto ci permette forse di apprendere qualcosa da questa sofferenza, ridimensionandola. Ogni grande dolore può essere richiamato, ravvivato anche dopo molto tempo. In questo senso essi non vengono mai dimenticati. Ma vengono dimenticati nel senso che non invadono più ogni nostro pensiero rendendoci incapaci di agire.

Ma “sotto quali aspetti la sofferenza interviene a modificare l’umano e a renderlo un po’ più umano”?

Innanzitutto, la sofferenza ci fa perdere una parte della nostra padronanza. In qualche modo abbiamo perso il controllo e ciò che contavamo di fare o intraprendere è diventato impossibile. “I nostri occhi non trovano più i riferimenti a cui eravamo abituati e noi vacilliamo incapaci di avanzare. Ma questo smarrimento doloroso ci può condurre ad un riesame su cui fondavamo le nostre vite”.

Queste parole, scritte ormai sedici anni fa, sembrano risuonare con enorme potenza dentro di noi, oggi. Non possiamo scegliere di non soffrire.

Possiamo scegliere come porci di fronte alla sofferenza e che cosa farne. Possiamo abbandonarci completamente ad essa ed andare verso l’isolamento e la depressione. Possiamo irrigidirci e non provare più nulla. Oppure possiamo lasciare che ci trasformi, possiamo far si che scacci via la monotonia della ripetizione, che tracci nuovi percorsi.  

“Noi potremmo lasciare che i segnali che ci davano sicurezza si allontanino e lasciare che altri più mobili e più sicuri nella loro incertezza vengano a guidarci. Abbiamo sperimentato la nostra fragilità, la fragilità della nostra condizione. E così diventiamo un po’ più umani”. 

In che senso diventiamo un po’ più umani? In che modo la sofferenza può trasformarci?  

Quando abbiamo perso la nostra padronanza sulla vita e sui progetti, quando la ripetizione automatica di vecchi schemi, comportamenti e gesti viene superata, è possibile che appaia una nuova configurazione delle cose. Ad esempio “la gerarchia dei nostri legami si trova completamente modificata. Alcune realtà a cui davamo estrema importanza si trovano in un altro posto ad un’altra altezza.[…]. Tra noi e ciò che ci accade è stato instaurato un rapporto di flessibilità.” In questo senso lo shock può renderci più attenti, più intelligenti verso i segnali che riceviamo quotidianamente, e farci percepire più facilmente le sfumature delle trasformazioni che ci sono attorno. Può renderci più sensibili verso i bisogni e i desideri dell’altro, aumentare la nostra empatia.

Affinché ciò accada è importante però che la sofferenza acquisti parola e sia contenuta, che diventi un oggetto psichico essa stessa, non solo una schiacciante condizione esistenziale, e con la sua presenza consentire che venga oltrepassata (D’Elia, 2004).   E’ qui allora che diventa fondamentale il supporto sociale e psicologico, l’apertura all’altro e la condivisione di ciò che stiamo vivendo e di come lo stiamo vivendo; solo in questo modo sarà possibile quell’atto trasformativo che porta ad una crescita individuale e collettiva:

“Il dolore non te lo devi tenere dentro, ti deve passare da parte a parte ma deve uscire. Il dolore che si trasforma in parola è passaggio e fa crescere”.  

BIBLIOGRAFIA   Roustang, Che fare delle proprie sofferenze, Terapia Familiare, n.76, 2004

©  copyright |Dott.ssa Chiara Guarducci | PSICOLOGA