La diagnosi spacca il tempo in due. Cancro. Mastectomia. In quell’istante il cervello registra ciò che le neuroscienze chiamano “trauma da discontinuità biografica”. Tutto si ferma. Il compleanno che doveva arrivare, il Natale, i progetti. Tutto inghiottito da quella parola.
Durante il giorno si può resistere. Si mangia sano, si lavora da casa con calma, si cerca di mantenere una routine. “Ce la sto mettendo tutta”, si dice all’oncologo, e in quel momento è vero. La corteccia prefrontale mantiene il controllo, costruisce strategie, trova soluzioni. Ma poi arriva la notte.
La notte è quando tutto crolla. Il cortisolo resta alto, l’amigdala in allerta, il sistema nervoso in battaglia permanente. Ma contro chi? Contro il proprio corpo. Le neuroscienze lo chiamano “dissonanza somatica”: il corpo che era casa, rifugio, identità, improvvisamente tradisce. Ed è lì, nel buio, che emerge la domanda più terribile: perché continuare?
Sarebbe più semplice mollare tutto. Non controllarsi più. Non andare ai controlli. Lasciarsi andare alla deriva. Almeno non si dovrebbe più combattere contro sé stessi ogni singolo secondo. La tentazione della resa è reale, concreta, scientificamente documentata negli studi sulla “fatica da decisione” nei pazienti oncologici. Ogni scelta sana è una battaglia. Ogni giorno è resistenza.
Ma poi si va avanti. Non per forza, non per resilienza, non per ottimismo. Quelle parole suonano vuote quando sei “la malata” e non più una persona con un nome. Gli studi sulla riduzione identitaria mostrano come gli altri cambino sguardo, linguaggio, distanza fisica. Si diventa l’etichetta diagnostica. E in questa solitudine, che la neuroscienza sociale registra come isolamento cronico misurabile nel cervello, si continua per pura inerzia. Perché l’alternativa fa ancora più paura.
Il tempo non scorre più: si vive da un controllo all’altro. La cronobiologia del paziente oncologico non conosce stagioni, solo cicli terapeutici e finestre di osservazione. Ogni sintomo è un allarme. Ogni esame è un verdetto. E il paradosso è crudele: ogni gesto di cura ricorda la malattia. Ogni attenzione al proprio corpo è un promemoria costante. Non può passare, perché è integrato in ogni respiro.
C’è chi parla, chi consiglia, chi cerca di aiutare. Ma nessuno può davvero capire cosa significhi questa guerra quotidiana contro il proprio corpo. La verità è che alcune notti viene voglia di smettere di lottare. Di arrendersi. Di dire basta.
Eppure, all’alba, ci si alza di nuovo. Non per eroismo. Non per coraggio. Semplicemente perché è l’unica cosa che si può fare. La ricerca psico-oncologica è chiara: il supporto psicologico non è un optional, ma una necessità tanto quanto la chemioterapia. Perché riconoscere la voglia di mollare non è debolezza. È onestà. È essere umani di fronte a un trauma che spacca l’esistenza.
E forse l’unico atto di vera resistenza è questo: ammettere che si vorrebbe mollare tutto, e continuare comunque. Un giorno alla volta. Una notte alla volta. Senza retorica, senza medaglie. Solo il passo successivo, anche quando sembra impossibile.
Psicoterapeuta Dott.ssa Brunella Apicella